Il triplo di dodici
Lavoro in biblioteca.
Qualche tempo fa ho conosciuto una persona, una donna.
Ero molto felice perché per il lavoro e per la vita che faccio non mi è facile incontrare gente nuova.
Per un periodo siamo stati sempre insieme: mangiato, dormito, fatto l'amore. Lei mi diceva che ero molto dolce, che le ricordavo il suo primo ragazzo di quando aveva dodici anni, che ancora oggi sono ottimi amici.
Diceva che ero intelligente, che ero la persona con cui si trovava meglio in assoluto, perché con me si sentiva a suo agio e poteva essere veramente se stessa, senza mai vergognarsi.
Faceva pipì, si puliva le orecchie col cotton-fioc, tutto davanti a me, e non si depilava quasi mai, diceva che non ne aveva voglia.
Io però non avevo dodici anni come il suo primo ragazzo, ne avevo trentasei, e avevo capito come sarebbe andata a finire.
Finì infatti, dopo un paio di mesi, che cominciò a depilarsi.
Non passò molto tempo da allora al momento in cui ebbi la prova di quello che pensavo: mi dispiacque tanto e mi ricordo che piansi tutta la notte, anche perché non avrei voluto sapere niente, né vedere per chi si depilava.
E invece io li vidi e loro non videro me.
Spensi il cellulare e smisi di andare al lavoro per una settimana. Non so se non mi cercò o non mi trovò, comunque per una settimana non la vidi più.
Ogni tanto passavo davanti al negozio dove faceva la commessa, senza farmi vedere.
Parlava sempre coi clienti, annuiva con interesse a quello che dicevano, aveva un'espressione normale, quella di sempre.
Ero sbalordito.
All'età di trentasei anni mi sentivo come un ragazzino di dodici che non capiva come fosse possibile che un rapporto potesse significare tanto per una persona e tanto poco per l'altra.
Così fu proprio per curiosità, per il fatto che ero sbalordito, che un giorno decisi di entrare nel negozio.
Lei mi aveva visto subito ma non aveva avuto il coraggio di dire niente: finalmente era imbarazzata, dopo non esserlo stata per due mesi, neanche sulla tazza del water.
Presi una scatola di caramelle e le misi sul banco, avrei dovuto parlare però avevo gli occhi lucidi e temevo si vedesse che tremavo.
Pagai e lei mi diede il resto, ancora tutto in silenzio.
Ce l'avevo quasi fatta ad andarmene quando lei mi disse, tutta rossa in viso, "Ma che fine hai fatto?"
Me lo disse perché si sentiva in dovere di dire qualcosa, però in realtà pensava che non ci fosse bisogno di parlare, perché già aveva capito tutto e le dispiaceva, le dispiaceva sinceramente, ma non sapeva cosa farci.
In effetti aveva proprio capito tutto e tutto quello che non aveva capito forse era trascurabile.
Eccetto una cosa, forse.
Nella settimana che non ci eravamo visti ero stato prevalentemente sul divano. Anche sul letto e in piedi davanti alla finestra, ma prevalentemente sul divano.
E avevo pensato molto.
E poi avevo trentasei anni e non dodici come il suo primo ragazzo.
Le dissi, con le lacrime agli occhi:
"Che fine ho fatto io? Che fine hai fatto tu, piuttosto?
Mio padre ha avuto un ictus, una settimana fa, per una settimana è rimasto tra la vita e la morte. E' una settimana che non mangio, che non dormo."
Lei aveva cominciato ad ascoltare con aria grave, ma si era accorta solo dopo qualche istante che soltanto il tono del mio discorso, non il contenuto, corrispondeva alla sua previsione di quello che avrei dovuto dire.
"E' stato terribile. Metà della faccia gli è rimasta completamente paralizzata, non poteva neanche deglutire e la bocca gli colava in continuazione. E quando cercavo di pulirlo mi mordeva le dita, ti giuro, non parlava, non capiva niente, non era più umano, ti giuro. Anche come si muoveva non era umano, faceva degli scatti, non controllava più il suo corpo, una notte le infermiere lo hanno dovuto legare perché dicevano che altrimenti poteva farsi male, ti giuro, ho sperato che morisse."
"E poi..."
"No, ora è stabile. Non parla, però fa come come una cantilena ogni tanto: non si capisce niente. Solo una volta, l'altro ieri, ho capito che diceva <che vi venga un colpo, andate a fanculo, andate a fanculo tutti, andate a morire> e ha continuato così per un po', poi non si è capito più niente come prima."
Il fatto che lei non parlasse mi aveva dato coraggio.
"Per ora è rimasto a Rimini, poi si vedrà. Io mi trasferisco là per un po', vado a stare da lui. In questo momento non riesco a dirti nient'altro, ho la testa occupata solo da questo: portare la mia roba a Rimini, portare via mio padre dall'ospedale, preparare una camera per me e una camera per lui."
Poco dopo sono uscito dal negozio.
Dopo la settimana che era passata, ora stavo di nuovo bene.
Mi era venuta una gran voglia di andare veramente a Rimini da mio padre. Così il giorno dopo salii in treno e lui mi venne a prendere in stazione con la sua macchina.
Con l'età aveva cominciato a uscire sempre meno ed era un miracolo vederlo alla guida: in effetti, a pensarci bene, erano anni che non montavo in auto con lui.
Lì seduto sul sedile del passeggero, con lui che guidava prudente, ho pensato che in fondo non era passato tanto tempo da quando avevo dodici anni.
E poi tutti i convenevoli e le raccomandazioni di sempre: che dovevo riguardarmi, pensare alla mia salute, non fare sforzi e ricordare di prendere le medicine, che avevo trentasei anni ormai: a certe cose dovevo badare da me.
Nella mia vita ho fatto tante altre cose, ma quello che ho appena raccontato è il mio capolavoro.
Ero contento di aver sacrificato la persona che mi era più cara al mondo per realizzare il mio capolavoro, però, mentre ero lì in macchina con lui, giurai a me stesso che non lo avrei mai più rifatto.