La sala d'attese
Mi trovavo quel giorno di metà inverno, in procinto di entrare nella sala d’attesa del mio consueto dottore di famiglia. Egli era da sempre specializzato in ascolto di chiacchere, offriva consulti di circa una ventina di minuti a persona, prescrivendo qua e consultando dizionari là, sempre pronto a dispensare buona autorevolezza medica. Il semplice ascolto incondizionato da parte sua, pareva bastare a conquistare anche il paziente più lamentoso.
La sala d’attesa, nel mio ricordo, figuarava molto diversa da quella che mi trovai davanti quel giorno.
Nel piccolo ingresso che precedeva la sala, legato alla scrivania, trovai con mia estrema meraviglia, un cavallo a dondolo enorme, di legno chiaro, grande praticamente quanto un cavallo vero, con impazienza dondolava nervoso, muovendo la coda di fili di lana con gesti stizziti.
La sala d’attesa di medie dimensioni, straripava eccezionalmente di persone, era tutto una gran confusione; le panche, posizionate lungo le pareti colorate di giallo, erano tutte piene, addirittura piene due volte, ospitavano persone sedute su altre persone. Qualcuno poi, i più leggeri, sfruttavano le prese dell’aria calda per sedersi a mezz’aria, giusto all’altezza delle stampe sulla fauna e la flora tipica dei fiumi.
Taluni erano in piedi, taluni in ginocchio, altri ancora incastrati a testa in giù, tutto il centro della sala era occupato da una massa compressa di persone incastrate abilmente tra di loro. La poltrona vicino alla porta d’ingresso ospitava una colonna di persone sedute in pila, una specie di totem vivente e piuttosto pericolante.
C’erano dei bambini piccoli, qualche bambino medio e anche un bambino grande, che leggeva, con la fronte corrucciata e il pollice in bocca, una rivista medica di grande spessore, nonostante le sottili dimensioni.
Una signora seduta vicino all’ingresso teneva in braccio la sua borsetta nella quale aveva piantato una grossa palma, ne accarezzava pensierosa le foglie. Il mormorio leggero che solitamente animava la saletta, era quel giorno un gran chiasso; due donne sedute su due lati opposti, conversavano del più e del meno ad un livello di voce inaudito, tra lo scrosciare delle chiacchere si potevano udire abbastanza distintamente i gorgoglii di una donna che si cimentava in un aria lirica molto famosa ma di cui adesso non riesco proprio a ricordarmi il nome.
Tutti, nonostante il loro insolito aspetto, stavano comunque chiaramente aspettando, ingannando il tempo con passatempi, musica, chiacchere, parole crociate in alfabeti medio-orientali, o sfogliando settimanali di pettegolezzi.
Stanco di stare in piedi con l’aria da pesce fuor d’acqua, trovai un piccolo posticino per terra, su di un tappeto turco vicino alla porta del dottore.
Accanto a me si trovava un uomo dalla carnagione scura e un turbante giallastro in testa, sedeva a gambe attorcigliate con gli occhi chiusi, capii che non dormiva dal momento che ogni tanto alzava una mano nodosa per lisciarsi la barbetta appuntita. Alla mia sinistra, sedeva invece una vecchissima signora che spalancò la sua bocca sdentata in un delizioso sorriso quando mi accomodai, tesseva a maglia quella che mi parve una lunghissima sciarpa candida come la neve; solo dopo qualche minuto mi accorsi che stava intrecciando la sua stessa chioma.
In quell’istante capitò qualcosa di molto strano, ancora più strano di quello che pareva essere capitato in quel posto prima che arrivassi, un fischio di treno poderoso irruppe sopra tutti i chiacchericci fermando apparentemente tutto il trambusto per qualche secondo. Allora una decina di persone, tra cui la signora con la palma nella borsetta, cominciarono ad alzarsi e muoversi spintonando in direzione della porta del dottore, ma sulla porta, al posto di Dr. Zanchetta appariva inspiegabilemente la scritta dorata “Treno per Nuove Avventure.”.
Quando tutti i passeggeri del treno furono entrati nella porta, parve ristabilirsi un pò di pace, ad un tratto l’uomo dal turbante giallo, seduto accanto a me, si alzò e senza guardare o urtare niente e nessuno attorno a lui, a passi lenti e silenziosi, si diresse da solo verso la porta che titolava questa volta “Illuminazione”.
Senza che nemmeno me ne rendessi conto, la porta chiamò tutti i bambini che aspettavano il “Natale”, qualche uomo d’affari che aspettava “le Ferie”, poi arrivò il turno dei cagnolini che aspettavano “la Pappa”, una donna incinta in stadio notavolmente avanzato aspettava da un pò ormai, “Il Parto”; poi due giovani che si precipitarono verso “il primo giorno di lavoro”, e ancora una ragazzina paonazza e titubante che scappò a dare il “Primo Bacio” dietro la porta.
Le persone che aspettavano “Il Ritorno” contribuirono a svuotare la sala d’attesa di moltissimi aspettatori.
Mi stupì non poco il notevole numero di persone che aspettavano “Un tecnico della lavatrice” o “Un paio di Scarpe Nuove” (per quanto riguarda le scarpe, almeno una decina di donne tra signore e signorine, un omone davvero pieno di se e una vecchietta a dir poco eccitata).
Arrivava all’incirca il turno di tutti, prima o dopo, senza alcun ordine preciso, mentre la sala andava svuotandosi sempre di più. Entrava ancora qualche nuovo aspettatore, anche se sempre più di rado, ma non gli toccava mai aspettare molto.
Dopo la chiamata dell’”Autobus verso casa” la sala rimase definitivamente vuota.
Mi resi conto che ad aspettare rimanevamo solo più io e la signora sdentata che senza mai dare uno sguardo alla porta seguitava, con pazienza, a intrecciare le ciocche morbide con i ferri.
Gettai uno sguardo alla porta e mi accorsi che in quel preciso momento non esponeva alcuna dicitura, era una semplice porta di legno scuro con la maniglia d’ottone che avrebbe potuto portare ovunque, anche in un negozio di frutta esotica.
La signora anziana scelse quel momento per entrare, si avvolse la chioma argentata attorno al collo sottile, slegò il cavallo a dondolo e dopo un sorriso scomparve anche lei dietro lo scatto della serratura.
Il nome “Dott. Zanchetta” poi comparve sulla porta, finalmente, a mettere fine alla mia attesa.